mercoledì 20 agosto 2014

"C'era una volta", il libro postumo di Mascia: ecco la relazione integrale del prof Iampietro

di Angelo Iampietro

Ho accettato con onore e con estremo piacere la proposta che mi hanno rivolto i figli del prof. Alfonso Mascia per questo incontro; li ringrazio, assieme alla loro mamma, per aver messo a disposizione della comunità baselicese, e non solo, uno scritto tanto prezioso per la cultura della nostra gente; è un bel libro che ha richiesto, per la sua pubblicazione, impegno di ogni genere. 
E’ questa, inoltre, un’occasione per dare i giusti meriti letterari all’autore di tanti scritti e, rivivere, nel contempo, i tanti momenti di piacevole compagnia, che mi hanno visto vicino alla sua qualificata persona, cui ero legato da lunga amicizia, da un profondo rispetto e da un infinito senso di stima.

Mi permetto di associare a questi sentimenti quelli dei presenti che hanno avuto di lui uguale spiritualità.
 
Il prof. Alfonso Mascia è stato un vero baselicese, direi un baselicese d.o.c. che ha canalizzato la sua cultura, la sua creatività, la sua fatica, unita al suo impegno continuo, in opere che rendono celebre il nome della nostra cittadina e che le consente, a tal riguardo, di andare orgogliosa oltre i confini territoriali. Un territorio lontano dai centri ed isolato, come il nostro, è diventato espressione di centralità perché menti raffinate e colte ne hanno lasciato testimonianza scritta e grafica.

Egli era, all’apparenza, scontroso, riservato, solitario, (“musone si dice in loco”), assorto nei suoi pensieri, ma per chi lo conosceva era tutt’altro: affabile, cordiale, partecipativo, generoso, di compagnia, promotore ed assertore di iniziative culturali nelle quali credeva profondamente; era uno che credeva molto nell’amicizia, pronto a spendere una parola positiva per chiunque; era il primo a proporsi all’interno di un gruppo per dare una mano a chi necessitava di aiuto; era un uomo dal cuore grande e tenero, che soffriva e si emozionava per gli aspetti contradditori e, il più delle volte negativi della nostra società, di fronte ai quali, faceva capire tutto il suo disappunto; allargava le braccia, quasi a dire, “che possiamo farci!”; era sensibile, colto e creativo e, senza questi ingredienti, non avremmo avuto in eredità questo vasto patrimonio di testimonianze scritte su come eravamo.

Il suo nome di letterato baselicese è legato al teatro, ma egli non ha scritto solo quello: vi è dell’altro, che lo qualifica, per l’impegno negli studi di analisi sociale e di lunga e laboriosa ricerca linguistica per conoscere e farci comprendere a fondo gli elementi strutturali del nostro dialetto, del quale ci fornisce una scrittura codificata nella semplicità, per una lettura più agevole, una comprensione immediata, sancita, regolata e codificata nella morfologia e nella sintassi.

Come i Baselicesi sanno, ma non solo, egli è stato professore di Lingua e letteratura italiana e di Lingua e letteratura latina nei Licei di Stato, prima in S. Bartolomeo in Galdo al liceo scientifico e poi al Liceo Classico “Levatino” di S. Marco dei Cavoti. Ebbe anche altri incarichi: fiduciario e collaboratore prima, dirigente (preside) poi, incarichi che, però, non gli davano quella gratificazione e soddisfazione professionale che aveva ottenuto dall’insegnamento, e, per tale ragione, in seguito ritornò all’insegnamento come professore.

Come docente possedeva una professionalità eccellente, infatti coloro che furono suoi studenti, attualmente validissimi professionisti, ricordano tuttora le sue lezioni basate non solo sulle discipline di studio, ma con lo sguardo sempre rivolto ad una cultura vasta e partecipata all’insegna della umanità e del senso del dovere, della buona formazione.

La sua lezione, indipendentemente dai saperi specifici che era tenuto a dare, era anche una lezione di vita per una persona in formazione, perché essa vivesse in armonia con il mondo al fine di assimilarne le regole e le condotte positive all’insegna dell’impegno e dell’onestà interiore.

Trasmettendo egli cultura ed avendo una grande capacità di osservare ciò che avveniva intorno a lui e ciò che aveva appreso dal passato, è inopportuno per lui che non venga scritto, proprio perché non vada disperso; e lo fa in modo mirabile: con acutezza di analisi ed, oltremodo, con semplicità comunicativa; ciò offre la possibilità al lettore di identificare un’epoca, il cui racconto, interiorizzato, lo aiuta a comprendere anche il nostro vivere quotidiano con tutte le problematiche che esso presenta.

Egli, dotato di intelligenza non comune, riporta nelle sue opere temi sociali, storici, di costume e di usi che sono scritti nel nostro dialetto ed in lingua; con esse egli rappresenta non solo il faro, che è guida di tutti quei naviganti baselicesi che tengono a cuore di non dimenticare il loro trascorso, la loro storia, il loro vissuto, le loro radici, ma è anche il vero baluardo della cultura popolare baselicese. Egli, per dare continuità al nostro vissuto, preferisce interpretarlo e trasmetterlo con il linguaggio della nostra gente, che costituiva nella quasi totalità della popolazione l’unico suo mezzo di comunicazione. E con esso ci ha presentato un mondo di valori fatto di sacrifici, di lavoro, di sofferenze, di rispetto nel solco della tradizione da cui non dovremmo mai allontanarci.

A questo punto mi corre l’obbligo di ricordare solo alcune delle sue opere: “Fortore, su il sipario!” (raccolta di opere teatrali in vernacolo baselicese già pubblicate nel 1990 e ripubblicata in tre volumi nella primavera del 2009 a spese dell’Amministrazione Provinciale di Benevento, grazie al profuso impegno del compianto Consigliere Provinciale Michele Maddalena; esse contengono distintamente: i drammi sociali, i drammi storico-culturali e le commedie, ampiamente rappresentate a Baselice negli anni addietro con notevole partecipazione e successo.

Un’altra opera, unica nel suo genere, è “Il dialetto baselicese”( dizionario, grammatica, appendice), pubblicata nel maggio del 2001; opera grandiosa che lo impegnò per più lustri ed alla quale continuava a lavorare per renderla ancora più completa. Un’opera di tale portata, pur avendo visto la luce, non consentiva che su di essa calasse il sipario; è un’opera su cui lavorava continuamente, perché la voleva sempre più ricca ed esaustiva. La ricerca ed il completamento linguistico, per un’opera di tale portata, non ha mai fine e lui, consapevole, avendolo nella mente e nel cuore, lo integrava con ciò che, man mano, veniva scoprendo. Lo amava, del resto era una sua creatura, frutto di tanto lavoro.

Nel 1991 l’AGB pubblica “Un’occasione d’impegno”, curata del prof. Mascia in cui sono riportate tutte le attività culturali di cui l’AGB si era fatto carico per celebrare il suo 20° compleanno.
Nel 2005 pubblica “Così si PENSA e si Dice”, raccolta di filastrocche, modi di dire, motti baselicesi; è scritta in vernacolo con la traduzione in lingua. Ricordo ancora “I due CD musicali”, registrati da “Aldroc Studio Baselice” nel settembre del 2013, che raccolgono le canzoni ed i canti corali dei testi teatrali “Fortore, su il sipario!, parole del Mascia e musiche di musicisti baselicesi.

Infine non poteva mancare l’opera per la quale ci troviamo qui riuniti e della quale cercherò di illustrare la sua validità culturale ed i suoi pregi letterari per un popolo legato alle sue tradizioni, ai suoi usi e costumi, in sintesi alle sue radici che amo definire, come più volte ho detto in altri simposi culturali: “albero della memoria”, che vuol dire tenere un filo diretto con le origini, con le proprie radici, con la propria storia, sintesi di quella di una comunità più ampia.

“Albero della memoria”, che va rinvigorito e che sia linfa vitale per ognuno di noi per una crescita interiore e culturale di tutto rispetto.

È questa una serata che vuole tener vivo il nome del prof. Alfonso Mascia e questa pubblicazione postuma ci consente di parlare di lui e del suo impegno sociale, civile e culturale che mette a disposizione di tutti con i suoi scritti.
 
Questa serata, però, arreca anche sofferenza a molti di noi, perché la sua mancanza è tuttora viva, ma avere la possibilità di sfogliare e leggere la pubblicazione dal titolo “ C’era una volta”, dal sottotitolo “Momenti di vita vissuta nella campagna fortorina” ed a seguire “Storie & Storie”, opera di 172 pagine, pubblicata da “Tecnografica Sandrigo” di Vicenza nel dicembre del 2013, ci da’sollievo.

La sua veste editoriale è pregevole, sia per l’impaginazione e la scelta del materiale cartaceo, sia per la grafica, che ne facilita la lettura. Significative ed eloquenti, sono le immagini riportate in copertina, l’ideatore o l’ideatrice non poteva fare scelta migliore; è un quadretto familiare, che, da sole, ci conducono, in un baleno, in quel mondo che egli, con la sua sempre luccicante penna annotava e stendeva il suo progetto letterario, non consentendo ad essa di arrugginirsi come capitava a più di uno scolaro nei tempi in cui sono riferiti i fatti.

Sono contento, e, credo lo siano i presenti insieme a me, che “C’era una volta” non sia rimasta nel computer dell’autore o esclusivo patrimonio della famiglia, ma che essa, con la sua pubblicazione, sia stata messa a disposizione di tutti coloro che vorranno leggerla per rinfrescare la memoria di come si era: sia per i più anziani, che hanno vissuto parte di quel periodo, sia per i più giovani che hanno sentito solo parlare di quel mondo ormai così lontano dalla nostra epoca tecnologica, che, a volte ci impedisce di stabilire relazioni dirette, di guardarci negli occhi, ed infine, come saluto, di stringerci la mano; certamente, sia gli uni che gli altri trarranno notevoli vantaggi nell’approfondire o nel conoscere quel mondo fatto di sacrifici e di convenzioni sociali semplici che, pur sembrando lontano dai nostri desideri, ci è attiguo per i tanti valori che incorporava e trasmetteva; ciò, oltretutto, dovrebbe rappresentare per le nuove generazioni una pietra miliare da non perdere di vista. 

I valori, scaturiti dalla mente e dal cuore della persona per bene, non inseguono le mode effimere, essi, infatti, sono imperituri.

E mai come adesso quella pietra miliare, che rappresenta la sfera valoriale di ogni individuo per un cammino non facile nella società globalizzata, non dovrà mai essere persa di vista, perché è e sarà punto di riferimento e guida che ci accompagnerà verso ogni scelta futura.

Conoscevo già in parte il contenuto di questo libro sin dal giugno del 2010, l’ultimo incontro, quando ebbi a fargli visita in quel di Lecce, dove il Professore amava trascorrere parte della stagione estiva. Il lavoro era in gran parte già fatto, necessitava solo di essere rivisitato per le necessarie correzioni, le opportune integrazioni o limature prima di darlo alle stampe.

Me ne parlava sommessamente, com’era suo solito, facendomi presente che da tempo lo aveva avuto in mente e quando, poi, era passato dalla ideazione alla realizzazione, ne era rimasto soddisfatto. Del resto egli era fatto così, meditativo e timoroso come molti di noi delle trascorse generazioni i quali necessitavano di un incoraggiamento, di un ulteriore convincimento, di un pensiero positivo per varcare la soglia, la linea di confine per far emergere le potenzialità interiorizzate che ciascuno possiede e che bisogna estrinsecarle, per dare pieno sviluppo alla idealità ed alla realizzazione della persona.

“C’era una volta” è scritto in lingua, sebbene avesse preferito il dialetto, ma non mancano in gran numero, a seconda delle situazioni e delle circostanze, i tanti motti e proverbi in vernacolo, che arricchiscono non solo la prosa, rendendola più viva, fluente e chiara, ma l’intero contesto comunicativo perché sintesi di una cultura popolare.

La nostra gente, nella sua semplicità, allorquando comunica e dialoga, spesso ricorre al proverbio proprio per dare maggior senso ed incisività a ciò che dice, con il duplice scopo di dare valore oggettivo alle sue idee e di essere certo che la sua comunicazione sia stata compresa; del resto il proverbio non è altro che la sintesi di un modo di fare, di un costume, di un uso di una popolazione, espresso in poche parole sulla base delle esperienze di vita pregresse. Tanti di essi sono veri e propri codici di vita. I proverbi che troviamo nel libro, ben inseriti nel contesto della narrazione, sono il corollario e la sintesi della nostra cultura plurisecolare.

“C’era una volta” consta di due parti: “momenti di vita vissuta nella campagna fortorina” e “racconti di vita di “personaggi tipi” di Baselice o di luoghi viciniori.

La pubblicazione propone: – come l’autore dice – “…alcuni flash sull’Alto Fortore, scattati tra gli Anni Quaranta e la fine del XX secolo, quando il tempo scorreva lentamente uguale a se stesso, per fermare momenti di vita vissuta nella campagna e storie di viva umanità”.

Lo fa in un’ampia premessa dal titolo: “L’alto Fortore di ieri” in cui riporta la sua attenzione sul trascorrere della vita dei fortorini, improntata - com’egli dice - “ad una rigorosa sobrietà, ancorata ad ancestrali valori e tradizioni”.

Costoro erano, nella stragrande maggioranza componente la popolazione, “contadini dediti ad un’agricoltura a carattere familiare, di pura sussistenza, alle prese con una terra poco grata; i lavori dei campi erano fatti con attrezzi agricoli, necessari per essere utilizzati dalla forza fisica e, per il “massaro”, che poteva consentirselo, con l’ausilio degli animali da traino o da trasporto su soma. I buoi, i muli, gli asini, insieme a qualche altro animale di allevamento da cui traevano i frutti: carne, lana, latte, erano anche loro compagni, con cui vivevano l’intera giornata di duro lavoro e, spesso, anche di notte; alcuni di questi erano alloggiati negli angusti spazi dell’abitazione, se così la si poteva chiamare secondo gli schemi valutativi del nostro vivere.

Molti degli attrezzi che egli adoperava erano da lui costruiti con abilità e cura; la scelta della materia ( il legno), con le sue forme naturali secondo la necessità di ciò che si voleva realizzare, avveniva molto tempo prima che lo stesso fosse costruito; egli lo adocchiava tra i rami di una quercia, un cerro, un olmo e, non lo perdeva di vista, nei periodi successivi, fino a quando lo stesso poteva essere reciso, trattandosi di vegetazione. Il taglio avveniva nel giusto periodo di riposo vegetativo, rispettando le fasi lunari, cui seguiva la stagionatura e, successivamente, la lavorazione dell’utensile. Chi non aveva sufficiente abilità nel realizzarlo si affidava ad un parente o amico perché glielo confezionasse, ripagandolo con l’ aiuto delle proprie braccia in qualche lavoro campestre.

I momenti di vita vissuta nella campagna fortorina vengono rappresentati dalla famiglia Specchiale; mi ha colpito il cognome della famiglia: Specchiale, da specchio, immagine riflessa di una data realtà, quindi la famiglia Specchiale è lo specchio di quel contesto sociale, in cui agiscono ed operano in rapporto ai tempi ed ai luoghi (siamo tra gli anni ’40 e ’50).
 
È “una famiglia patriarcale d’altri tempi”, in tutto 12 persone, compresa la “nidiata di ragazzini”.
Il vecchio Berto, ottantenne, è il capofamiglia, il patriarca, colui che decide, il saggio a cui rivolgersi anche per qualche consiglio; è vestito, secondo l’uso, con camicia di flanella, panciotto e pantaloni di pelle di diavolo e, nella masseria, siede al solito posto vicino al nero camino, circondato dai suoi nipotini, godendosi il giusto riposo, avendo sempre accanto a sé, per compagnia, la brocca di vino che, di tanto in tanto, sorseggia; vi è poi la moglie Maria Grazia “ che si muove lentamente di qua e di là in cucina e sull’aia, dedicandosi alle piccole faccende: innaffia, spazza, dà da mangiare alle galline e ai conigli, porta in casa le fascine per cucinare”.

Dello stesso nucleo familiare fa parte il figlio Vito, di sessant’anni; “manda avanti la baracca” con l’aiuto dei figli Bertuccio e Leonardo e delle nuore Maria e Incoronata; provvede puntualmente ai tanti lavori che i campi richiedono. I suoi capelli sono ingrigiti da qualche anno, ma sono tutti al loro posto e, quando qualcuno se ne complimenta, egli, abbozzando il solito sorriso, commenta: “Capìdde e uàje nó mànchene maje”!
 
In famiglia viene rispettato ed è di esempio ai figli.

Filomena “di qualche anno più giovane del marito Vito, è una donna molto dinamica: oltre che dare una valida mano nei lavori dei campi, è instancabile nelle faccende domestiche ed è bravissima a cucinare… ”.

Maria Grazia, moglie di Berto, ha un buon rapporto con le nuore alle quali inculca la convinzione che a dirigere la casa sia il marito: “Pòvere chédda case addó’ la jaddìne cante e lu jadde tàce”.

I compiti delle donne sono molteplici: oltre alla cura dei figli debbono provvedere al bucato, alla saponificazione, alla panificazione, alla caseificazione, alla maialatura, alla preparazione della conserva, alla raccolta dei frutti ed al giornaliero governo degli animali. A questi si aggiungono anche i lavori agricoli secondo le stagioni: piantare i legumi ed il granturco, zappettare il vigneto (remenà la vìgne), mondare il grano, legare i covoni durante la mietitura, spigolare, brucare le olive, aiutare gli uomini durante la fase della vendemmia e della svinatura, avere cura dell’orto.

I ragazzi vengono ugualmente impegnati in lavori adatti all’età come: portare al pascolo le bestie ed essere di aiuto alle donne nelle faccende domestiche: attizzare il fuoco e provvedere alla legna necessaria.

Come si può ben notare, ed il Mascia lo mette bene in evidenza, è che, nella famiglia patriarcale, ogni membro di essa assolve a compiti ben specifici e consente, come in un ingranaggio, alla ruota di roteare e di trasmettere movimenti finalizzati; allo stesso modo, ogni unità della famiglia assolve al suo compito con puntualità ed impegno; solo così è possibile che il patriarca Berto possa assicurare, ben amministrando, tutto ciò di cui i suoi conviventi abbisognano. Certamente vengono soddisfatti i bisogni primari, producendo in casa ciò che necessita, le spese voluttuarie sono impensabili. Si aspetta la fiera per recarsi al mercato, ci si veste a nuovo, ma le compere sono limitate se non alle necessità. Come si può ben notare, il Professore mette molto bene in evidenza questo aspetto della vita contadina dove la semplicità e la parsimonia, unite all’utilizzo a pieno delle risorse produttive, costituiscono la base, il substrato della vita quotidiana. L’unica certezza che i contadini di un tempo, ma direi tutti gli altri nei rispettivi lavori, avevano a sazietà, era il tanto lavoro con pochi frutti. Ne è prova l’emigrazione che ha colpito massicciamente e tuttora colpisce i nostri paesi sin dalla fine dell’Ottocento.

Ampia è la rassegna dei lavori stagionali che il Mascia ci presenta attraverso la famiglia Specchiale dal titolo: "Le cadenze periodiche delle attività agricole”. La vediamo impegnata in primavera nella cura del vigneto, nella potatura degli ulivi, nella mondatura del grano, nella semina del granturco, nella fienagione, nella continua assistenza e dedizione dell’orto perché cresca rigoglioso e non faccia mancar nulla dei suoi prodotti. La cura del vigneto e quella dell’orto necessitavano e necessitano della presenza laboriosa, costante, esperta, e, quindi, tanto faticosi da dar adito ad un proverbio che diceva: “vìgne e órte vònne l’óme mórte”.

A queste ampie descrizione dei lavori campestri si aggiunge la cucina, che utilizza, in gran parte, i prodotti stagionali, frutti di lavoro, diligenza ed abilità.

I supermercati di Geppino, Gigino, Marucci appartengono alla nuova generazione!
Siamo giunti in estate e con essa i tanti lavori che vengono magistralmente riportati con dovizia di particolari: la mietitura a mano, la trebbiatura con le bestie, la raccolta del granturco, la debbiatura per ripulire il campo dalle stoppie perché fosse pronto per essere arato o zappato; aratura cui seguiva, prima della semina, “lu restocche”, cioè arare di nuovo lo stesso campo per frangere le zolle che avrebbero impedito ai semi di germinare.

Segue sempre la cucina stagionale che utilizza ampiamente i prodotti dell’orto: lattughe, pomodori per la panzanella, zucchine, fagiolini, peperoni.

Si giunge così in autunno.
Un lavoro importante è quello di portare all’asciutto la legna da ardere, da utilizzare nei periodi successivi perché dice Maria Grazia: “Vérne, si nonn’à cape, à còde”.

Segue la vendemmia con il suo rituale: la scelta e la selezione delle uve rosse e bianche per la distinta vinificazione; i grappoli migliori di malvasia vengono scelti, legati al picciolo con spago e poggiati su appositi pali (li pèrteche) appesi al soffitto per essere conservati (quella era la frutta!). Vi è poi l’aratura e la semina del grano, dell’orzo, dell’avena, delle fave, esclusivo compito degli uomini; i buoi, soggiogati, tirano l’aratro, ben tenuto dalle callose e forti mani di Vito. Altro momento importante dell’attività agricola stagionale è la brucatura delle olive. L’olio serviva solo per condire l’insalata o quando una persona era ammalata, in altri contesti si adoperava per condire lo strutto o il lardo di maiale, non sempre nella giusta pozione.

Si giunge così all’inverno.
La famiglia Specchiale in questa stagione non è assillata dai lavori campestri e, quindi, conduce il suo ritmo di vita con maggiore tranquillità. Certamente le bestie vanno accudite e con esse non mancano i piccoli lavori.

Dopo quest’ampia illustrazione delle attività agricole nelle varie stagioni, il Mascia ci presenta le cadenze periodiche delle attività di casa, compiti esclusivi delle donne che fanno: il sapone e il ranno, il bucato primaverile e la tinteggiatura della casa per le festività pasquali, la panificazione, il formaggio, la conserva di pomodoro, l’essicazione della frutta (prugne, pere, fichi, sorbe), marmellate, sottòli, sottaceti. La vinificazione è compito degli uomini, ma non manca mai l’aiuto delle donne che si prendono cura della pulizia dei tini, dei bottiglioni e delle damigiane, nei quali conservano il buon vino. Fare l’olio è un lavoro impegnativo, perché lo si fa in casa e necessita di tanto lavoro con attrezzi chiamati “lu tumbagne” e “l’angeledde”.

Segue la maialatura che viene fatta in quasi tutte le famiglie: “lu pòrche jè la rasce de la case”, del resto: le salsicce, le soppressate, i capicolli, i prosciutti, la pancetta, ben conservati in luoghi freschi, costituivano il companatico per l’intero anno, mentre la sugna ed il lardo, il condimento.
Infine vediamo la famiglia Specchiale alle prese con le ricorrenze; la vediamo alla domenica, giorno di riposo, dedita alla cura della persona e anche dell’anima con l’ascolto della S. Messa di primo mattino; anche la tavola è più ricca del solito con pietanze più sostanziose: pasta di casa accompagnata da involtini di carne.

Vi è poi la fotografia di come questa famiglia contadina trascorre il Carnevale che inizia il 17 gennaio con la festa di S. Antuóno; si riportano alcuni momenti di vita di questo periodo laico che nella sua semplicità propone: le mascherate, le rappresentazioni lungo le strade del paese come “La Zingarella”; non mancano, infine le frittelle, gli strufoli, le scartellate, i panzerotti ripieni di formaggio e uova impastati, le cicerenate, le pizze rustiche, le pizze con le patate.

Ci vengono presentati eventi importanti per una famiglia cristiana come la sacralità della prima comunione di una bambino della famiglia Specchiale e la festa conviviale, che, immancabilmente, segue.

Alcune pagine sono dedicate alle feste religiose: dalla patronale a santo Antonio da Padova, da san Giovanni eremita all’Assunta, da san Rocco a san Leonardo Abbate e da questi a santa Lucia.
Di ognuna il Mascia ci fornisce un ampio quadro di come esse venivano festeggiate; lo spirito religioso è linfa dell’animo del baselicese, il quale partecipa con convinzione e devozione; è regola che durante le festività non si lavori perché è peccato. Alla festa religiosa si unisce sempre un po’ di divertimento: ci si veste a nuovo, si ascolta la banda e si compera qualche verga di torrone Ficociello. Non mancano gli incontri e gli sguardi intensi di giovanotti e giovanette. Insomma, quando è festa è festa ed anche la tavola diventa più ricca del solito e più di un cuore palpita.

Mi sta a cuore far notare come il caro Prof., nel presentarci quanto finora ho esposto, lo fa con chiarezza di pensiero e con semplicità lessicale; certamente incontriamo parole che molti di noi conoscevamo solo nel dialetto, ma lui ci offre la possibilità di conoscerle anche nella “lingua del sì”.

La lettura di “C’era una volta”, oltre che farci rivolgere e riportare lo sguardo sul passato, che rappresentano le nostri radici, ci offre la possibilità di sapere come si chiamano in lingua italiana i nomi degli attrezzi, degli strumenti utilizzati, delle attività delle donne e quelle degli uomini; ciò costituisce un arricchimento linguistico che non è cosa di poco conto.

La seconda parte del libro raccoglie 21 racconti o storie come li chiama l’autore.
Il prof. Mascia, acuto osservatore di ciò che avveniva intorno a lui, ci presenta fatti e situazioni di personaggi veri, autentici, unici nel loro ruolo esistenziale; sono persone dalle tipologie più diverse che si muovono in un mondo fatto di semplicità in cui affiorano le durezze della loro vita; vita fatta di privazioni di ogni tipo, di sofferenza per un destino crudele, di voglia di migliorare lo “status quo” e di riscatto, di una speranza che insegue l’irraggiungibile stella nel firmamento.

Sono questi, come egli dice :- ” uomini fatti di carne – nei quali si legge, in qualsiasi modo per come essi ci vengono presentati, tutta la loro umanità e la loro fragilità; per questo - come dicevo - sono personaggi veri, perché identificati negli aspetti più vari della loro esistenza: nel loro credere, nel loro carattere, nella loro cultura, nel loro agire quotidiano ed, a volte, anche nella loro contraddizione.

Chi ha la mia età sarà certamente in grado di individuare alcuni di essi, perché persone note nell’ambiente baselicese per alcune peculiarità personali che ne facevano un tipo originale ed unico.
I loro nomi non sono quelli di battesimo, come è giusto che sia. In uno solo la protagonista è chiamata col vero nome: è Maria, ben identificabile, che da sola dovette affrontare ogni sacrificio per offrire al proprio figliolo un futuro diverso dal suo.

Sono quadretti di vita che si leggono d’un fiato. In alcuni di essi è presente, da parte dell’autore, una velata ironia, che non vuole dileggiare il personaggio tipo, ma quasi a volere che il lettore possa comprendere meglio la sua personalità, non avulsa dall’ambiente da cui ebbe quel poco di beni materiali, ma molto, molto cercò di dare in umanità, saggezza, spirito di sopravvivenza in un mondo limitato e circoscritto, lontano dagli standard di vita di altri luoghi dove il cambiamento era in essere. Essi, tuttavia, sono anche lo specchio di un’epoca; si muovono in quel contesto ambientale e fanno parte del nostro vissuto e, come tale, ci appartengono, perché hanno respirato tutti l’aria fortorina.
Le loro storie, infatti, legano il passato al presente non come sistema di vita, ma come esempio di impegno attraverso il quale si sprigionano i valori che ci accompagnano; e che queste non le copra mai la coltre della polvere, perché coprendole, prima ce le cela ed, infine, non ce le fa più ricordare.

Il messaggio del prof. Mascia è proprio questo: conoscere il passato, vivere meglio il presente e progettare il futuro all’insegna delle cose fattibili e dell’amore che ogni persona dovrà esprimere attraverso la sua umanità, le sue responsabilità, il suo impegno.

La prosa è coesa e curata; la chiarezza espositiva e la cura del lessico lo sono altrettanto.
Sono questi elementi, insieme a tanti altri che sottaccio, che danno valore letterario a “C’era una volta”, ultima creatura partorita dalla mente raffinata e creativa di un uomo che, in silenzio, amava la sua e la nostra Baselice.
Grazie Alfonso per questo tuo scritto; con esso hai voluto porre un’altra pietra per pavimentare la strada della cultura e del sapere, piedistalli di crescita umana, sociale, civile di cui tu eri sincero e fedele assertore.

Grazie ai figli che, con tenacia e laboriosità, si son fatti carico della pubblicazione; grazie alla moglie, prof.ssa Carmelina, che, con il suo cuore di mamma ne ha incoraggiato l’iniziativa.
L’evento è stato organizzato dall’”Assessorato alla Cultura del Comune di Baselice”, dalla “Proloco” e dall’ “Associazione li Janare”.

Si ringrazia l’Amministrazione Comunale tutta e il sindaco dott. Domenico Canonico per aver consentito che questa serata di cultura fosse tenuta nel prezioso “Palazzo Lembo”, giudicato tra le 13 meraviglie della Campania. E non è cosa di poco conto!

La presenza numerosa di voi tutti, viva e partecipe, ha tributato il giusto riconoscimento ad un baselicese che non solo ci ha onorato con i suoi scritti, ma ha fatto sì che la cultura del nostro popolo fosse incisa a caratteri cubitali su tante pietre dure, il cui scritto, indelebile, esprime la saggezza, che è e sarà la fonte, dalla quale, volendolo, potremo attingere molte risorse, per una crescita che ci veda protagonisti del nostro futuro.
 
E, per concludere, non mi resta che ringraziare Voi tutti, qui convenuti, per l’attenzione e la pazienza, mostrate nel seguire il mio intervento.

Se, al contrario, vi ho tediato, credetemi: non l’ho fatto di volontà, perché l’unico scopo è stato ed è quello di tener vivo il nome del prof. Alfonso Mascia, ma anche quello di altri, da me sottaciuti, che tanto si sono spesi per il buon nome e per la cultura baselicese con opere letterarie, storiche, artistiche, musicali.
Buona sera!.

Da “Palazzo Lembo” in Baselice, 9 agosto 2014

Nessun commento: