lunedì 1 giugno 2009

Il teatro di Alfonso Mascia in "Fortore su il sipario!"


Postiamo una sintesi della relazione del prof Angelo Iampietro tenuta a Baselice il 23 maggio scorso in occasione della presentazione del nuovo lavoro del prof Alfonso Mascia "Fortore su il siparo!".

Pregevole è la veste editoriale che si presenta in tre volumi, suddivisi per temi, racchiusi in un elegante cofanetto-contenitore. Il titolo è quello della precedente edizione del 1989 “Fortore, su il sipario!”, ma l'edizione è riveduta con la cura esatta dell'ortografia e ampliata di cinque lavori. Contiene, inoltre, la traduzione interlineare dei lavori in un italiano colloquiale, che cerca di riprodurre l'efficacia, se non tutto il colore e tutto il sapore, del testo in vernacolo.

Alfonso Mascia nasce a Baselice ed ha svolto la sua opera di Professore di “Lingua e letteratura italiana e lingua e letteratura latina” nei Licei di Stato di San Bartolomeo in Galdo e di S. Marco dei Cavoti. Egli ha scritto tanto e non solo opere teatrali (drammi e commedie); di queste ultime, numerose per numero, ha voluto farci dono, attraverso il suo racconto scenico, di fatti, situazioni, eventi, memorie, ricorrenze, tradizioni, riti, comportamenti, dicerie, credenze perché la nostra memoria non dimenticasse ciò che è appartenuto al mondo valoriale di noi tutti.

Ma ciò che colgo di valore inestimabile e che, certamente sarebbe andato perduto, è l’analisi dei comportamenti del passato che il Mascia propone in vernacolo e lo fa con dovizia di particolari in un susseguirsi di situazioni sceniche, dove l’occhio dello spettatore, quasi d’incanto, segue, senza mai annoiarsi, ciò che viene rappresentato e dove questi, in tanti contesti, si riconosce.
Egli è un abile trasmettitore che non ha pari e che riesce a farlo in modo mirabile perché ne coglie tutte le sfumature; e lo fa, a volte, con un sorriso, che, in alcune vicende, diventa quasi ironia, ma mai e poi mai sarcasmo.

Egli vuol far conoscere, vuol far sapere, vuole che non si dimentichi e lo fa con lo scritto perché ognuno possa scoprire, anche a distanza di anni, come eravamo.
Egli, quindi, ci presenta il vissuto di un’intera popolazione in cui vengono evidenziate le dinamiche esistenziali, il più delle volte aspre, ma che hanno come base la semplicità e su cui si innestano anche il confronto e lo scontro.
Il Mascia scrive in vernacolo baselicese, un dialetto autentico parlato da pochi, ma il valore culturale per espressività e per i tanti temi che egli affronta, certamente, non resta ristretto al solo nostro territorio. Il vernacolo gli serve - come dice l'Autore nella prefazione - “per non tradire neppur minimamente l'anima fortorina o falsarne le sfumature”.

Sono parte integrante del suo teatro i “Canti corali”, per lo più mesti, solenni, elementi questi insostituibili e caratterizzanti: in essi l'Autore vuole che respiri l'anima della gente fortorina. Un’altra tematica che il Mascia tratta in alcuni drammi è quella storica. Lo fa – come il Mascia dice - ”per gli umori e i sapori della gente fortorina coinvolta in grandi contingenze storiche quali la dominazione spagnola e il brigantaggio post-unitario nel Fortore”. Si ricordano, a tal riguardo: “Lu briante Secule”, “Plebaglia” e “Lu 1656: ché anne chidd'anne!”.

In tutte e tre le opere i protagonisti popolani hanno piena consapevolezza dei loro limiti e si muovono nel loro agire con spirito di umanità, che resta immutato anche quando le circostanze li porterebbero ad agire diversamente.

“Lu briante Secule” è una vera lezione di storia nella quale troviamo tutti gli elementi e le problematiche dell’Italia unita; problematiche che prenderanno il nome di “Questione meridionale”, che tuttora risulta in parte irrisolta.

In “Plebaglia” l’autore delinea il mondo medioevale con le sue regole ed i suoi usi.
Il dramma vuole essere un flash sulla vita condotta dalla gente del Fortore in secoli bui e lontani: protagonista, più che il signorotto Ottavio Carafa, con la sua arroganza ed i suoi soprusi, è la gente con i suoi bisogni elementari, la gente, che, del signorotto, subisce soprusi ed arroganza. “Lu 1656: che anne chidd'anne” non sfugge all'analisi socio-storica dell'Autore, un'altra pagina dolorosa di storia fortorina: “l'anno 1656, l'anno del colera”, in cui nell'atmosfera di morte vive la storia d'amore di due giovani che trionfa sulla morte e sulla vessazione del signorotto locale.

Altro grande tema che l’autore tratta è l’emigrazione; lo fa, proprio perché Baselice, insieme a tutto il Fortore, al Sannio e all’intero Meridione non poteva sottrarsi alla portata di quest’ampio fenomeno sociale, iniziato alla fine dell’Ottocento, per le sue limitate risorse economiche.Un fenomeno di così vasta portata è presente nelle opere teatrali: “Li cane frustiate”, “Lu viaije vacante”, “Li figghie de la iaddina nere”, “Mannaggia a Sacripante”. Emigrazione vista sotto i vari aspetti: con l’emigrante che porta con sé nel Paese d’arrivo i suoi limiti comportamentali e culturali.

Il Mascia sintetizza e fa propri i motivi che hanno suscitato questo ampio fenomeno di massa. Partendo dal rifiuto del proprio vissuto nel nostro ambiente e soggetto ad un’autorità patriarcale, nel dramma: “Li cane frustiate”, Salvatore, giovane membro della famiglia Colajanni, decide di emigrare. E' questo un atto di ribellione allorquando dice: “I’ qua non ce voije sta cchiù”.

Contrapposte ad un gesto cosi deciso, in “Lu viaije nvacante” emergono la semplicità e la credulità della nostra gente dinanzi al miraggio di un’occupazione; ne approfitta il furbo mediatore per il proprio tornaconto. Lo sfruttamento è subito da Tommaso, allorquando, per una giornata di duro lavoro (quale lo spaccare legna), riceve come compensa un grazie e nulla più, accompagnata da: “tanti saluti a mammète, che brava femméne...”

Il disagio economico porta pure ad una limitazione di legami affettivi nei giovani senza futuro. E’ tutto questo racchiuso nella simpatica espressione di Giuseppina, una ragazza del paese in attesa di marito, rivolta a Tommaso, suo pretendente, anche lei senza alcuna prospettiva:“Tumà…a case vonne ca maggia marità, subbete. Come campame nuie duie? Cu l’occhie nire e li capidde ricce?”.

Altro motivo ricorrente è il migliorare il proprio tenore di vita in loco con l’acquisto di un “proprio” podere o di una “propria” casa. I sacrifici all’estero renderanno la vita più piacevole e potranno consentire maggiore dignità e prestigio sociale. Accanto ai fattori che hanno spinto la gente ad espatriare, il Mascia offre anche un’ampia panoramica sulle condizioni dell’emigrato.L’emigrato appare, per lo più, uno sprovveduto, un povero diavolo, un lavoratore instancabile che accetta qualsiasi lavoro, orgoglioso del proprio operato, un incerto, un sentimentale legato alle radici.L’autore fotografa anche una realtà che è parzialmente attuale: l’emigrazione vista come elemento di emarginazione.Il fenomeno migratorio del dopoguerra, su cui il Mascia pone l’accento con maggiore intensità, ha avuto conseguenze politiche e sociali di notevole interesse economico.

Mentre i giovani, pervasi dalla speranza di progredire e di un più facile guadagno, hanno cercato di inserirsi nel circuito evolutivo della regione industrializzata, superando remore, difficoltà ambientali e culturali, gli anziani si sono dovuti adattare per mere necessità economiche, nutrendo nell’animo sempre il sentimento delle famiglia, il legame con il propria terra d’origine, la nostalgia del proprio paese, delle proprie tradizioni, delle usanze, dei costumi. E' la decisione di Minguccio nei pressi della stazione di Torino quando dice: “Ma sa ché ce sta da nòve! Mò facce una penzàte: le manne a fa' 'ncule a Torìne e a tutte la migrazione e me ne torne a la propria terra...”.

Anche se c'è chi nei confronti della propria terra nutre rancore. E' il caso di Tommaso in “Lu viajje a nvacante” quando dice : “...I' nò. Pe Vaséuce cròcia nére! I' nò me ne venghe chhiù, maje cchiù. Lasse ca mòre!...”.

Il Mascia, con l’arte del drammaturgo, non solo rappresenta il dramma dell’emigrazione del Fortore e ,in particolare, di Baselice, ma ha esteso quel dramma all’intero Sannio che, poi, in realtà si fonde e si confonde con l’intero Sud.
Il problema dell’emigrante disadattato, si condensa e si sintetizza in
“Li figghie de la iaddina nere” nella figura di Minguccio, giovane emigrato in Germania e, poi, dopo il matrimonio, a Torino, che diventa, così, il protagonista della parte scenica di questo grande fenomeno.

Il tema dell’emigrazione tocca un po’ tutte le famiglie di Baselice e dell'intero Fortore; ogni famiglia è partecipe dell’opera del Mascia perché ha vissuto ne vive il fenomeno migratorio. Ma il Mascia, nell’approfondimento del tema, non tralascia un altro motivo che è proprio dell’emigrazione: il fenomeno delle vedove bianche è presente nell'opera suindicata. Il far teatro del Mascia mostra anche questa sfaccettatura, ma vuole essere un invito a non rompere le tre dimensioni: paese, famiglia, emigrante.L'attenzione del Mascia si sofferma in “Quanne jè nire...jè nire”, anche sull'unico tentativo di riscossa della gente fortorina: la Marcia della fame del 14 aprile 1957: un fallimento, una disdetta per il Fortore!.

In quest'ampia raccolta di opere, suddivise per temi, non poteva mancare: la commedia.
Esse s'incentrano su candide figure di una civiltà che sta per scomparire definitivamente: “Marionette, forse, - dice l'Autore -, ma di carne, che si lasciano ben volere per le loro originalità”.Si ricordano: Mannàggia a Sacepànte!“, “A fa' li cunte sènze de lu tavernàre!” e “E brave Giambattiste! Brave!”. Infine in “Ajjére e vòjje”, si fa una carrellata di momenti storici e di aspetti culturali della gente del Fortore dalla caduta del Fascismo il 25 luglio 1943alla fine del secolo, un cinquantennio di storia, un collage di elementi, desunti, con lievi adattamenti, da varie opere teatrali, sintesi del suo teatro sociale.

Angelo Iampietro

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